A casa mia, quando in estate andavamo in montagna, mamma faceva sempre il pane, per tutta la settimana.
C'era una madia nella grande cucina e là dentro, nella buca, in una piccola ciotola di coccio ci stava sempre un panino duro, grigiastro che se lo aprivi puzzava e dentro era appicicoso. Mamma diceva che era il lievito, Chiarina la nostra aiutante tutto -
fare diceva che era il "lèvito" , anzi, " lu lèvitu".
Il venerdì sera, mamma partiva da lì, da quel panino duro che metteva a bagno in acqua tiepida e che una volta sciolto del tutto, mescolava alla farina. Quanta farina? Boh, non chiedetemi troppo , guardavo, ma ancora non osavo pensare a rifare. Quell'impasto cresceva cresceva e al mattino presto mamma iniziava a fare il pane. Allora le mattinate andavano dalle fette di pane con marmellata di prugne e latte di mucca appena munto, alla voce " Dianella è ora di pranzo!". In questo intervallo ci poteva stare di tutto, a seconda del mese poteva essere la rivendita dei giocattoli , piccoli oggetti trafugati da casa o giochini sottratti a ignari fratelli e cugini , oppure poteva essere la raccolta dei funghi o delle nocciole, o interminabili partite a canasta, o il gioco della casetta con i pezzetti di ceramica raccapezzati per strada e scatole del lucido delle scarpe che facevano da tortiera. Oppure ci poteva scappare che qualche cugino grande ti portava a fare un giro sul sidecar, o che si passasse la mattinata semplicemente a chiaccherare sulle scale del portone.
Insomma l'impasto, per l'aggiunta di tanta acqua e tanta farina diventava grande e in breve cominciava a crescere.
Doveva bastare per 10 filoni ! La mamma era così brava e così lesta...Dopo un po' ecco già che li aveva fatti e allineati sopra una tavola lunga e stretta ricoperta con telo bianco : metteva un filone e faceva una piega al telo, così da separare il prossimo, poi un'altra piega e un altro filone, fino a posizionarli tutti , perfetti ed uguali.
Quando questi si erano gonfiati tanto che le pieghe del telo quasi non si vedevano più , arrivava Chiarina alla finestra della cucina , fuori della finestra. Uno di noi reggeva la zanzariera , Chiarina si sistemava in testa uno strofinaccio attorcigliato
come una corona e mamma faceva uscire la tavola pianin pianino fino a che la parte centrale era proprio sulla corona di Chiarina. Lei a questo punto mettendosi una mano alla vita e reggendo con l'altra la tavola , con aria importante e attenta se ne andava giù per la strada, verso il forno.
Intanto che il pane cuoceva veniva il bello.
Mamma lasciava sempre della pasta , un po' da metter via per il li lievito, ma molta altra per fare le pizze e le frittelle.
Le pizze si cuocevano nel forno della cucina a legna che avevamo lì in casa e mamma ne faceva
sempre 3 - 4 : una dopo averla stesa la pizzicava con il pollice e l'indice e ci spiaccicava sopra dei pomodorini maturi dell'orto, qualche giro d'olio e un po' di sale;un' altra era con le cipolle , poche fette sottili di cipolla bianca; un'altra era con il rosmarino e, se c'erano, faceva anche quella con i ciccioli. Le preparava e le metteva nel retrocucina dove c'era un'aria freddina che ne calmava la lievitazione.
Poi arrivava il turno delle fritelle e la cucina magicamente si riempiva : sorelle, fratelli e cugini ,che fino a quel momento si
pensava fossero in capo al mondo, si ammucchiavano intorno alla stufa dova c'era quella padella enorme e nera, piena di olio bollente.
Io ero sempre avanti a tutti , tanto che ancora ho al polso destro una grossa cicatrice fatta da uno schizzo di olio bollente. Bisognava lasciare il passo alla mamma che dalla madia veniva con le frittelle in mano . Ne prendeva una alla volta , la metteva delicatamente nell'olio e appena si formavano quelle grosse bolle la girava , una e più volte fino a farla diventare dorata.
"Chi la vuole con lo zucchero?"
"Io !"
La frittella veniva depositata sopra la carta paglia, ben asciugata e cosparsa di zucchero . C'era chi la piegava e chi la mangiava aperta.
"Chi la vuole con il prosciutto?"
"Io! "
La frittella veniva ben asciugata con la carta paglia e delle belle fette di prosciutto venivano adagiate sulla sua metà e poi rinchiuse nel mezzo. Il grasso del prosciutto, bianchissimo e buonissimo , si scioglieva con il calore della pizza e il primo morso ti ricordava che la vita è bella e buona.
Bisogna sapere che di quel prosciutto oggi non esiste più nemmeno il ricordo : i maiali innanzi tutto erano italiani, ma che dico italiani, erano maiali verchianesi ( ver, verris in latino vuol dire maiale...), questi maiali mangiavano solo ghiande e il pastone che praparavano per loro i contadini era fatto degli avanzi della cucina, soprattutto bucce di
patate e di mele, semola e acqua.
I prosciutti poi erano grandi, con le fette enormi e venivano fatti stagionare per almeno due anni in cantine apposite, areate sapientemente.
Le frittelle sparivano in un baleno e come la cucina si era affollata poco prima così rapidamente si svuotava.
Più tardi, come era partito, tornava il pane dalla finestra , con quella crosta ormai colorata , con quel profumo di miracolo rinnovato. I filoni , una volta tiepidi venivano impilati nella buca della madia , ma chissà come mai ad uno di loro mancava sempre un "culetto" sottratto da una mano piccola ma abile a non scottarsi e a non farsi vedere.
E le pizze ? Quelle si cuocevano dopo pranzo , erano la merenda di bimbi fortunati che non sapevano di esserlo e che non immaginavano neanche di essere gli ultimi della serie.
E' questo il mio ricordo delle frittelle di pasta di pane, un ricordo che per me è più vivo della cena di questa sera.
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2 commenti:
ciao, ti ho conosciuta sul sito cucinait. questo "racconto" è davvero bello. ho gli occhi lucidi, pensando ai racconti di mia mamma, simili a questo. un abbraccio
Ciao alemu, questi ricordi ci accompagnano per tutta la vita, per fortuna...Ciao e buon anno.
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